"Persi in un vuoto di memoria" di Maurizio Ferraris

"Persi in un vuoto di memoria" di Maurizio Ferraris
(Il sole 24 ore, 28 marzo 2010)

Ogni anno, il 27 gennaio, si celebra il giorno della memoria, ma se la Shoah fosse avvenuta al tempo di internet, se l’ordine di Goering fosse stato scritto nel 2042 invece che nel 1942, ci sarebbe il fondatissimo rischio che, nel 2310, scomparsi tutti i testimoni, non ne rimanga più traccia. Più niente ordine di Goering sulla soluzione finale (sarebbe stata una email finita chissà dove), più nessuna lista di documenti, più nessun film (rischio che dopotutto vale già per tragedie recenti: quanto dureranno le foto di Abu Ghrahib, se rimangono solo su formato digitale?) più niente di niente. Non ci sarebbe stato nessun giorno della memoria, perché non si sarebbe saputo che cosa si ricordava, oppure un simile giorno, in aperta contraddizione con la sua essenza, sarebbe stato un rito misterioso, in cui si celebrava la memoria di un evento dai confini vaghi e inafferrabili.

Un secondo esempio, meno tragico ma ugualmente macroscopico. Si fa un gran parlare di pregi e difetti di Wikipedia, io ci vedo molti pregi (per esempio, puoi correggere una voce, mentre se lo fai sulla Treccani ti escludono dal prestito) ma un difetto fondamentale: non si sa quanto durerà. Se la compagnia che la gestisce fallisce, o se una guerra che tocchi le memorie (e sicuramente le prossime guerre saranno di questo tipo) cancellerà Wikipedia, sapremo tutto sul ventesimo secolo, ancora consegnato alla Treccani, e più niente sul ventunesimo. In questo caso, il problema che ci si troverà a fronteggiare non sarà tanto quello (serissimo) della selezione, della verifica e della gerarchizzazione delle fonti, bensì quello (letteralmente apocalittico) della totale scomparsa dei documenti, o di una loro sopravvivenza marginale, iperselettiva e insieme del tutto casuale.

Terzo e ultimo esempio, che alla fine ci riguarda tutti. Si parla tanto del dare ai nostri eredi chiavi di accesso ai nostri archivi informatici, ma, di nuovo, non sappiamo quanto dureranno le compagnie che dovrebbero gestire questi servizi. E pochi pensano al fatto che tutto quello che sta nei loro computer è destinato a svanire o a risultare illeggibile pochi anni dopo la loro morte, per cui, dopo avere avuto tutta la vita iperdocumentata su mail, sms e foto, non ci sarà più niente, nemmeno un nome, a rigore. Per cui sarebbe utile suggerire ai mortali (ossia a tutti) di stamparsi su carta di buona qualità ciò che vorrebbero tramandare.

Ecco perché scegliendo la memoria come tema di quest’anno, il salone del libro di Torino (che si terrà dal 13 al 17 maggio) ha centrato un punto cruciale. In effetti, l’umanità conosce dei momenti critici di trasformazione. Il primo è stato il passaggio dalla cultura orale alla società della scrittura, e in particolare il momento in cui, in Grecia, si è giunti alla alfabetizzazione diffusa, intorno al V secolo avanti Cristo. Il secondo è stato il passaggio dal manoscritto al libro, con l’invenzione dei caratteri mobili di stampa per opera di Gutenberg. Il terzo è stato il passaggio, recentissimo, a una scrittura esplosa e diffusa nel web, che diventa una vera e propria biblioteca di Babele, ma che rispetto ad essa non ha grandissime garanzie di durata.

Perdonate il catastrofismo, ma questa epoca, nella sua lussureggiante fioritura di documenti, potrebbe essere l’ultima, non per mancanza di documenti, ma, proprio al contrario, per il motivo opposto. Mi spiego. Da sempre la nostra è una società della registrazione, e questo per il semplice motivo che non ci può essere società senza registrazione. Il sapere, la ricchezza, il potere, oltre che tutte le forme di rapporto sociale, richiedono delle registrazioni, il che spiega il motivo per cui la scrittura compare così presto nella storia dell’umanità, e in una funzione così cruciale: la storia ha inizio con la scrittura (basti dire che non abbiamo un solo nome proprio, dunque nessun individuo in senso proprio) che ci venga dalla preistoria; e dunque la preistoria può sempre di nuovo incominciare, basta che si perdano i documenti.

Ecco perché la domanda sull’avvenire della memoria è cruciale: quanto dureranno le masse di documenti che produciamo intenzionalmente e ancor più non-intenzionalmente in ogni istante della nostra vita e ogni decisione della società? Tutto sommato, i dibattiti sulla privacy, per urgenti che siano, appaiono secondari rispetto a questo problema di cui, vorrei farlo notare, non abbiamo alcun tipo di esperienza, dal momento che la trasformazione tecnologica è recentissima. La situazione è paradossale, e delinea quello che si potrebbe definire “mal d’archivio”, una sindrome ancora non analizzata, ma potente e devastante, che ha almeno quattro sintomi.

Il primo è la proliferazione dei documenti, che si moltiplicano perché è facile riprodurli e ancor più perché vengono generati automaticamente. Un tempo il documento era una cosa rara e deliberata, fatta nelle grandi occasioni, e tutelata dalla sua stessa rarità. Di documenti se ne producevano pochi, e venivano conservati gelosamente, attraverso il tempo, come la mia patente, che non si è mai allontanata da me da trentacinque anni a questa parte, ed è rimasta la stessa mentre le cellule del mio corpo sono cambiate cinque volte. La situazione ha incominciato a trasformarsi con le fotocopie, e adesso – nel momento in cui ogni istante della nostra vita è potenzialmente documentato, o documentabile a costi bassissimi – è esplosa.

Il secondo sintomo è l’indeterminazione: a causa di questa generazione spontanea non è più chiaro che cosa conti come documento. Molto concretamente: in una di quelle terribili mail circolari che coinvolgono decine di persone come è possibile determinare chi e quando ha davvero preso una decisione? E gli avvisi che la mia banca manda sul telefonino ogni volta che uso la carta di credito possono valere come prova che la transazione è avvenuta, per errore, due volte? Si direbbe di sì, però vai a convincere l’impiegato dell’agenzia di viaggi che diceva che no, non erano documenti perché non erano su carta. D’altra parte, se tutto ciò che transita dai telefonini avesse dignità di documento, qualcuno potrebbe essere tentato di applicare il televoto anche alle elezioni, come già a San Remo.

Il terzo sintomo del mal d’archivio è la fragilizzazione tecnonogica dei documenti dovuta al rapido cambiamento dei supporti e dei formati. Oggi le tesi di laurea vengono archiviate su CD, pochi anni fa considerati eterni, ma è proprio lì l’errore: non lo sono, si cancellano molto più facilmente di quanto non si creda. Se i manoscritti delle opere di Aristotele fossero stati su CD non ci sarebbero mai arrivati. Passando dalla memoria culturale a quella familiare non sembra affatto implausibile una situazione per cui i nipoti non avranno più alcuna immagine dei loro nonni (dove sono finite tutte le nostre foto digitali?). Il passaggio da una archiviazione passiva (metti in una scatola, e si conserva) a una archiviazione attiva è una trasformazione radicale, e non si può certo immaginare che i nostri lontani discendenti saranno disposti a investire tempo e denaro nella manutenzione dei nostri archivi informatici.

Il quarto e ultimo sintomo del mal d’archivio ha proprio a che fare con i soldi. Riguarda infatti la sostenibilità economica del web: chi paga per tutto questo, e quanto e quanto a lungo paga? La tendenza degli stati è di delegare il più possibile, per risparmiare, le funzioni di archivio ai privati, in particolare agli ordini professionali. E sempre più ognuno di noi, esasperato dalla fatica di Sisifo del salvataggio dati, si affida al cosiddetto “cloud computing”, il salvataggio in rete offerto da grandi aziende informatiche. Ora, i privati, come i banchieri rinascimentali, possono diventare anche più potenti ed efficaci degli stati. Tuttavia, durano generalmente meno. Cosa resta delle grandi compagnie telefoniche di mezzo secolo fa? E se le compagnie a cui abbiamo affidato il nostro archivio chiudono, o semplicemente cambiano di mano, dove finiscono i nostri dati, e chi davvero li possiede? Non dimentichiamo che Facebook sostiene di essere proprietaria dei contenuti pubblicati, e che i libri che si leggono su Kindle sono semplicemente in concessione, non sono davvero nostri.

Mentre tutto questo avviene, in un contesto in cui nessuno sa niente perché non si ha la minima esperienza storica di una trasformazione del genere, noi beatamente riempiamo con le nostre carte i bidoni della raccolta differenziata. La fine della storia non ha fortunatamente avuto luogo per mancanza di nuovi eventi e di progresso. Sarebbe grave se si verificasse, a sorpresa, per mancanza di documenti, e che della società più documentata e documentale della storia non dovesse alla fine rimanere alcuna traccia. Potrebbe così succedere che di tutta la Comédie humaine del nostro secolo non resterà nemmeno un nome, e che sopravvivranno solo i marchi impressi sugli oggetti. Poco male, forse. Ma è anche vero che a quel punto il detto di Valéry, “noi, civiltà, ora sappiamo che siamo mortali” troverà il suo pieno significato.