“La mattina del 5 ottobre 1957, svegliandosi, i terrestri scoprirono con somma meraviglia di possedere una seconda Luna”: con queste parole il bel libro “Luna Rossa. La conquista sovietica dello spazio” di Massimo Capaccioli riassume il senso di stupore, misto a terrore, che si diffuse fra tutti i Paesi del mondo – e in particolar modo negli Stati Uniti – dopo il lancio del primo satellite artificiale da parte dell’Unione Sovietica. Stupore e terrore che avrebbero portato a mobilitare enormi risorse politiche, finanziarie, industriali e umane per far atterrare una coppia di astronauti sulla Luna entro la fine del decennio successivo: ancora oggi, non a caso, si parla di “momento Sputnik” di fronte alla capacità di un gruppo di esseri umani di compattarsi e reagire efficacemente dopo aver preso coscienza del vantaggio raggiunto dai propri avversari o concorrenti diretti.
Dal “momento Sputnik” per gli USA al “momento Starlink” per l’Europa
Quasi settant’anni dopo, un’altra sorpresa proveniente dai satelliti in orbita sembra aver prodotto tutti i presupposti per innescare una reazione di pari portata: la minaccia rivolta da Elon Musk all’Ucraina di disattivare da remoto l’accesso a Starlink, nel momento più difficile delle relazioni con la nuova amministrazione americana, ha sollevato una lunga serie di allarmi in tutte le capitali e in buona parte delle aziende europee più esposte.
In una mattina di marzo del 2025, leggendo le dichiarazioni di Musk sul proprio smartphone basato su Android o IOS, con chip di fabbricazione taiwanese, scorrendo i commenti sui social media controllati da aziende americane o cinesi, molti capi di governo e di aziende hanno intuito in tutta la sua gravità il rischio di poter diventare il prossimo bersaglio di una minaccia di “disattivazione” da remoto in un periodo di crescenti tensioni geopolitiche.
Dal presunto “sistema di blocco” installato sugli aerei militari F-35 utilizzati dalle forze armate europee (menzionato dall’ex capo dell’intelligence militare francese in un articolo del Corriere), alla ben più probabile limitazione degli aggiornamenti software e delle forniture di componenti di ricambio di oggetti connessi, fino ad arrivare alla possibile disattivazione dei servizi cloud che, nell’UE, dipendono per il 70% da aziende come Alphabet, Microsoft, Amazon, gli europei hanno cominciato a valutare tutti i possibili scenari derivanti dalla dipendenza dall’estero nell’utilizzo quotidiano delle tecnologie.
Una vulnerabilità, a ben vedere, nota e dibattuta da tempo, ma che la minaccia di Musk ha contribuito a portare all’ordine del giorno dell’agenda dei governi, nel mezzo di un profondo processo di ripensamento delle priorità e delle politiche industriali dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri. Non si tratta più, semplicemente, della messa in discussione delle catene di fornitura globali e delle antiche “certezze” collegate al processo di globalizzazione, bensì del più immediato pericolo che prodotti e servizi utilizzati in maniera capillare in ogni ambito della vita quotidiana, lavorativa, politica e militare di un Paese o di un gruppo di Paesi possano essere bloccati o limitati dall’esterno in maniera del tutto inattesa.
La lettera di oltre cento organizzazioni e aziende a sostegno di un nuovo “EuroStack”
La reazione più significativa al “momento Starlink”, e potenzialmente in grado di mettere in moto processi dalle conseguenze profonde, è la lettera inviata da cento aziende tecnologiche e organizzazioni alla presidentessa della Commissione, Ursula von der Leyen, per sottolineare l’urgenza di una maggiore autosufficienza nei settori chiave del digitale – connettività, cloud, AI, piattaforme, – dando la priorità all’acquisto di tecnologia europea. Tra i firmatari della lettera figurano aziende come Aruba, Proxima fusion, OVH cloud, Proton, Sopra Steria, Airbus, Dassault Systems, organizzazioni come European Software Institute, European Startup Network, Italian Tech Alliance e startup come l’italiana Cubbit, specializzata nell’offerta di soluzioni innovative e sostenibili nell’ambito dell’archiviazione dei dati. La sottolineatura di quest’azienda non è casuale, e a breve spiegherò il motivo.
La lettera alla presidentessa della Commissione, che ha ottenuto un’ampia copertura tra i media di settore e generalisti, proviene dalle organizzazioni che a inizio anno hanno promosso lo sviluppo della EuroStack Initiative, dove Stack sta per “pila” di tecnologie fondamentali: un ecosistema tecnologico a guida europeo e creato da industrie europee, indipendente e sovrano, con l’obiettivo di ridurre la dipendenza dai colossi e garantire la piena sovranità digitale. Una sfida che richiede ingenti investimenti finanziari, tecnologici e di capitale politico, e che in un’intervista a Repubblica Francesca Bria– tra gli autori del report “EuroStack – A European Alternative for Digital Sovereignty – ha paragonato alle grandi sfide del passato recente che hanno portato alla creazione della moneta unica e del mercato comune.

“Senza la piena sovranità sui dati le aziende non hanno un futuro” (e neppure i Paesi)
La presenza di startup come Cubbit, in questo contesto, merita un approfondimento a parte: l’azienda opera in uno dei settore chiave dell’economia digitale e che, più di altri, esprime le croniche debolezze dell’ecosistema europeo rispetto a quello americano. Negli ultimi dieci anni la quota di mercato del settore cloud detenuta da aziende europee è passata dal 30% del 2017 a poco più del 10% attuale, pur a fronte di un’espansione senza precedenti del valore di questo settore. Di fronte a minacce di una “disattivazione” da remoto, lo sviluppo del cloud europeo smette di essere una questione puramente economica (se mai lo è stata) per diventare una questione strategica, di autonomia e sicurezza politica e sociale.
Intervistato da Gabriella Rocco per Repubblica, Alessandro Cillario – CEO e founder di Cubbit – ha svelato come nelle ultime settimane l’azienda abbia ricevuto numerose chiamate da CIO e Responsabili IT italiani ed europei “fortemente preoccupati per quello che sta succedendo: tutti stanno lavorando a una strategia per limitare la loro dipendenza e diversificare il rischio. Sono consapevoli che, senza i dati, le loro aziende non hanno un futuro”, e l’Europa neppure. “La sovranità digitale è la capacità di mantenere indipendenza tecnologica e sui propri dati – ha aggiunto Cillario – Se non avremo player europei rilevanti in settori come quello dei semiconduttori o la gestione dei datacenter saremo molto più vulnerabili e nelle mani di qualche CEO a migliaia di chilometri di distanza oltre oceano”.
La necessità di ripensare modello di utilizzo “ad accesso” di prodotti e servizi digitali
Moderare gli entusiasmi, mai come in questo caso, è un atto dovuto. Troppi progetti sono stati annunciati in passato, troppe risorse sono state promesse per pensare che – anche qualora questa lettera dovesse portare a risultati concreti – la strada verso la sovranità digitale sia già tracciata. La “lettera dei 100”, con ogni probabilità, è solo il primo passo di un processo di ripensamento del modello stesso su cui è stato costruito il successo commerciale delle tecnologie digitali degli ultimi anni: dal modello proprietario a quello ad accesso, ora predominante, dove ogni prodotto o servizio erogato tramite la Rete viene concesso su licenza o al più venduto tramite abbonamento, conservando un fortissimo legame di dipendenza con il proprio produttore.
Il “momento Starlink”, in questo senso, potrebbe coincidere con l’inizio della piena consapevolezza di quanto il modello ad accesso introduca dei profondi squilibri di potere tra chi detiene il controllo completo delle piattaforme e di chi vi può accedere solo in parte e dietro il pagamento di una somma ricorrente. Delegare il controllo della presenza digitale di individui, aziende e Stati ad aziende e piattaforme private è un processo che in Europa è già in arretramento da tempo grazie all’introduzione di regolamenti come il GDPR, il Digital Services Act, il Digital Markets Act, per menzionare quelli principali, ma i profondi squilibri del rapporto tra fornitori di servizi e “clienti” sono rimasti, per lo più, invariati.
Cambiare fornitore non è sufficiente, se il livello di dipendenza rimane lo stesso
Il tema del possesso degli oggetti connessi, che ho sollevato nel libro “L’uomo senza proprietà” (Egea, 2024), presentato al Centro Nexa a ottobre 2024, non riguarda quindi i singoli consumatori ma a un livello più ampio anche intere aziende e Stati che fanno uso di tecnologie che possono essere disattivate in ogni momento, dall’esterno, a seguito di una decisione unilaterale, di una violazione delle condizioni d’uso, o del fallimento o della chiusura dell’azienda fornitrice del servizio. Se la minaccia di Elon Musk ha avuto una tale eco in Europa è perché il rischio di essere “disattivati” riguarda un numero incalcolabile di persone e organizzazioni divenute, nel tempo, eccessivamente dipendenti dalle decisioni di qualcun altro posto a “migliaia di chilometri di distanza”.
Se, in conclusione, ci ricorderemo di questa serie di eventi come del “momento Starlink” che ha segnato ufficialmente la nascita di una vera industria digitale europea, spero che questo avverrà dopo aver adottato strumenti – culturali, legislativi, tecnici – in grado di limitare all’origine (e non a posteriori, sotto la minaccia di sanzioni) la dipendenza di persone, aziende e Stati dai fornitori di servizi digitali. Il rischio di svegliarsi, una mattina, e scoprire che al posto di Elon Musk c’è qualcun altro in grado di “disattivarci” con un semplice clic è un rischio che non si risolverà con la semplice sostituzione di un fornitore americano con uno europeo, senza aver prima cambiato il modo in cui questi servizi vengono commercializzati e utilizzati: dopotutto, per recuperare il terreno perduto e vincere la corsa alla Luna anche gli americani hanno dovuto creare tecnologie mai viste prima di allora.
Marzo 2025