Interviste su effetti e portata del Decreto Pisanu e analoghe normative riguardo Internet

In merito alle questioni connesse con il decreto Pisanu, stiamo realizzando delle brevi interviste con alcuni membri del Board of Trustees del Nexa e altri esperti. La prima intervista è con Philippe Agrain, CEO of Sopinspace e autore di numerose ricerche su tecnologia, democrazia partecipativa e spazi pubblici. [Intervista integrale disponibile anche in inglese].

Perché i governi tendono a evitare le analisi d'impatto socio-economico complessive prima di emanare norme relative a Internet? Non andrebbe privilegiato il concetto per cui tecnologie e comunicazioni digitali sono un bene comune da tutelare al meglio?

In realtà si tratta di due questioni diverse. Sulla prima, rispetto alle valutazioni preventive di impatto socio-economico sulle normative per Internet (e più in generale, per l'informazione e la conoscenza), la parola chiave è "complessive". Governi e gruppi d'interesse si rifanno a molte tesi economiche e, in misura minore, sociali. Ma si tratta di micro-argomenti, appositamente ritagliati per isolare l'effetto positivo localizzato di una normativa specifica; ad esempio, la presenza di ostacoli sulle modalità di accesso a Internet per rendere più sicura la società contro certi suoi utilizzi per le comunicazioni tra terroristi, o la positività dei brevetti software perché un numero limitato di PMI avrebbe maggiore accesso agli investimenti nel caso queste aziende siano titolari di tali brevetti. Simili argomenti non tengono in alcun serio conto gli effetti più generali - ad esempio, la necessità di efficaci indagini anti-terrorismo o l'impatto complessivo della brevettabilità del software sull'economia e sull'innovazione. [Leggi l'intervista integrale in italiano]

Ciò detto, dobbiamo renderci conto che questa riluttanza alle analisi d'impatto socio-economico complessive esiste da molti anni, e occorre quindi ricostruirne le capacità. Un’intera generazione di economisti e sociologi è stata addestrata a ignorare le migliori analisi macro-economiche, o anche quelle miste macro/micro-economiche o sociali in senso ampio, mostrando scarso interesse per ambiti infrastrutturali quali Internet o l'informazione e la conoscenza come bene comune. Molti di loro sono divenuti mercenari che vendono al miglior offerente la capacità di saper manovrare il rapporto domanda-offerta per beni specifici e isolati. Qualche economista in gamba ha continuato a lavorare sui benefici globali, in particolare su come tali benefici minori o localizzati non si traducano automaticamente in benessere globale. Lo stesso accade con il bene comune dell’informazione, dove una varietà di specialisti in ambito legale o operativo hanno de-costruito il fondamentalismo della massimizzazione della proprietà o del profitto su un solo pezzo d’informazione o di conoscenza. Recentemente l’informazione, la comunicazione e la conoscenza in quanto beni comuni hanno raggiunto un nuovo livello di riconoscimento: quanti tra noi si occupano di simili questioni stanno studiando il modo migliore per migliorare la relazione tra questi beni comuni e la società nel suo insieme. Uno degli elementi che provoca maggior frustrazione è il tempo che dobbiamo sprecare nel combattere posizioni senza senso, proprio quando ci sono così tante proposte positive da esplorare. Sebbene il valore dell’informazione e della comunicazione come beni comuni venga oggi riconosciuto nei circoli intellettuali, non è ancora sufficientemente avanzato a livello di policy operative. Recenti esperienze hanno dimostrato come l’impatto socio-economico venga considerato seriamente soltanto quando lo si richieda ad alta voce. Sono contento perciò che è quanto abbia deciso di fare il Nexa in questo caso specifico.

Come società moderna, abbiamo davvero bisogno di misure così stringenti? Come possiamo equilibrare al meglio la necessità di maggior sicurezza con il bisogno di innovazione tecnologica e la garanzia d’accesso ai nuovi media?

Non sono un esperto di sicurezza, per cui le mie opinioni in tema si basano su quanto sento dire da quanti ne sanno più di me. Ma anche i più distratti possono vedere come gli ostacoli nell’accesso a Internet previsti dal decreto Pisanu danneggino la gente comune assai più di coloro che invece vogliono compiere atti terroristici. Amplierò quindi la portata della domanda: quale l’equilibrio più adeguato tra i sospetti preventivi e le indagini imposte dalla magistratura? Chiedere la carta d’identità a chi frequenta i cyber-cafè è soltanto un tassello della tendenza più vasta verso il controllo e l’archiviazione diffusa dei dati, o verso l’accesso differenziato all’infrastruttura dell’informazione. È chiaro come il terrorismo o la pedofilia siano argomenti buoni per coprire altri fini. Ricordo che subito dopo l’11 settembre si svolse un incontro dei Paesi del G8 sul cyber-crimine. Il tema in discussione era la sicurezza delle infrastrutture d’informazione di vaste proporzioni. Tutti i PR del mondo chiesero a gran voce l’inclusione delle infrazioni alla proprietà intellettuale nella lista dei cyber-reati che minacciavano la sicurezza. E così è stato. Quando assistiamo a queste assurdità, il primo passo per rispondere alla domanda è affermare: “usiamo il buon senso”.

È sicuramente importante combattere il terrorismo o altre attività criminali. Negli USA l’introduzione del Patriot Act ha prodotto un enorme esperimento sul campo per capire quanto sia conveniente contravvenire al normale iter giudiziario e ai comuni diritti umani. La risposta è: le migliorie sono scarsi e i danni ingenti. Quella normativa ha danneggiato a tal punto la reputazione degli USA che molti miei amici americani oggi provano una profonda ferita morale che impiegheranno anni a sanare. Si sono avuti anche esperimenti d’altro tipo sul campo: le forze dell’ordine che si occupano dei reati contro i bambini sono apparsi assai efficaci nel catturare gli autori di attività criminali usando al meglio Internet, senza dover stravolgere l’iter delle normali indagini giudiziarie.

La domanda riguarda anche la promozione dell’innovazione tecnologica e l’accesso degli utenti ai nuovi media. Ritengo che con ciò s’intenda la possibilità per ciascuno di esprimersi tramite i nuovi media, non soltanto l’imposizione forzata di contenuti mediatici. Credo che le risposte siano ovvie: neutralità della Rete, accesso universale, spazi pubblici e gratuiti per l’informazione, molta alfabetizzazione, e una gran quantità di luoghi pubblici fisici dove la gente possa incontrarsi. Non vedo nulla in queste opzioni che sia incompatibile con la necessità di maggior sicurezza.

Quali i possibili ‘effetti collaterali’ di simili misure preventive per la privacy e la libertà d’espressione degli individui? Si tratta forse di un altro passo verso la società della sorveglianza?

Recandomi spesso in Italia per partecipare a eventi pubblici o convegni scientifici, ho potuto notare come il decreto Pisanu abbia trasformato le migliori università italiane in luoghi dove l’accesso a Internet per i visitatori è più arduo di quanto offrano le università dei Paesi emergenti, ad esempio. E questo è solo un aspetto laterale della questione. Più in generale, le misure preventive sono un po’ ovunque, dalle proposte per la detenzione anticipata di futuri delinquenti che ora hanno tre anni in Francia o Gran Bretagna a quella francese denominata “risposta flessibile” ad altri ambiti più oscuri delle regolamentazioni sui media.

È comunque vero che si può temere scivolare verso la società della sorveglianza, perchè si è avuta la collisione di due tendenze ben distinte: quel che Naomi Klein definisce il governo delle catastrofi e il generale rifiuto dei media centralizzati e di qualche governo nei confronti di spazi pubblici dove sia consentito a tutti di esprimersi. Quando i governi sono incapaci di avere una visione per la gestione del bene pubblico, appaiono molto più a proprio agio nella gestione delle catastrofi immediate. Proprio quando dobbiamo fronteggiare enormi problemi per la giustizia sociale e le disuguaglianze a livello globale, i governi riescono a produrre e distribuire migliaia di miliardi di euro per “gestire” la crisi finanziaria. In parallelo, l’emarginazione dello spazio pubblico e aperto, il rifiuto di una democrazia che offra libertà d’espressione, cultura e informazione è profondamente radicato in un numero ridotto ma potente di attori economici e politici.

Tuttavia in tal senso sono ottimista. Questa collisione sta producendo anche una maggiore coscienza nelle società sul fatto che questioni apparentemente distinte hanno un elemento in comune. Lo spazio pubblico e aperto viene riconosciuto come un obiettivo in se stesso, ma anche in quanto necessità per tutti coloro che hanno a cuore altri tipi di bene pubblico. La nostra epoca presenta sfide enormi per questi tipi di bene pubblico. Problemi quali le trasformazioni climatiche, l’incombere dell’era del post-consumismo, come controbattere la crescita delle ingiustizie senza tradire l’enorme speranza dei Paesi emergenti e in via di sviluppo di trarre beneficio dalla globalizzazione. Abbiamo assai meglio da fare che vivere nel terrore e costruirvi gabbie intorno. Al momento il problema è che questa crescente coscienza non trova corrispondenza nei partiti politici o nelle scuole di pensiero. In tal senso noi – intendendo le comunità d’interesse che cercano di promuovere Internet e il bene comune dell’informazione – abbiamo un preciso dovere pedagogico.
[18dec08]